Di Bambine, Bambolotti ed Educazione alla Maternità

Ero da un po’ che mi frullava per la testa l’idea di integrare anche questo aspetto del mondo degli spot, e finalmente mi sono decisa a farlo. Se il blog è originariamente sorto senza una contemplazione delle pubblicità per bambini è solamente perché la sottoscritta non ha modo di esservi esposta nel suo quotidiano, in quella scarsa ora al giorno in cui le capita di guardare televisione.

Ma considerando, prima ancora che i contenuti, il particolare target di riferimento di questi spot, mi sento quasi in dovere morale (oltre che desiderosa) di inserirli nella trattazione. E allora inauguriamo questo segmento con il botto, partendo con la tipologia di pubblicità (ma anche già la tipologia di gioco) che più fomenta le mie ire e la mia frustrazione: quella dei bambolotti. Non le figure e i pupazzetti da usare per creare storie e immaginare interazioni all’insegna di inventiva a creatività, ma gli pseudo bambini. Quelli da crescere. Da nutrire. Da accudire.

Cominciamo vedendo un paio di esempi, a partire da video correntemente in onda.

Due bambine, felici, interagiscono affettuosamente con il bambolotto pubblicizzato, mentre l’allegro sottofondo ci racconta di quanto Cicciobello ami mandare baci. Oltre a baciare, però, Cicciobello parla anche. Indovinate cosa dice? “Mamma” e “Mammina”. Proprio così! Con sorpresa di nessuno, il bambolotto è esplicitamente pensato e programmato per essere utilizzato esclusivamente dalle bambine, da apprendiste madri. Il bambolotto può essere nutrito, coccolato e fatto addormentare, in una perfetta dinamica di educazione al materno. Non genitoriale, ma materno. E ancora:

A chi si rivolgerà Sbrodolina, per ovviare al suo raffreddore? Chiaro: alla madre. Anche in questo caso abbiamo un jingle allegro che comunica la piacevolezza dello svolgimento del compito di cura da parte della bimba-madre, felice e contenta nel baciare il bambolotto di plastica, strofinargli il nasino, dargli da mangiare e fargli fare pipì.


Non prendiamoci in giro. Non prendetevi in giro. Non c’è niente di innocuo nel tentativo di rendere il ruolo materno un gioco. Non è un gioco, è un addestramento a un ruolo ben specifico che ci si aspetta che oltre la metà della popolazione vada prima o poi a rivestire (e che vada a farlo ben volentieri, sviluppando desiderio e ambizione rivolti a tale status).

Come molti sapranno, sebbene non avvenga sempre e per tutti, è comune che i bambini si sentano stimolati all’imitazione delle figure di riferimento. Vediamo come collocare quest’elemento nel caso specifico delle bambole, trattando due punti particolari.

Gli unici bambini e le uniche bambine che, nell’ottica dell’imitazione, possono sviluppare in modo spontaneo e naturale – quindi non indotto e non suggerito – il desiderio di imitare i gesti di cura di infanti sono coloro i quali hanno attorno o a portata di osservazione una figura di riferimento che rivesta tale ruolo, ossia uomini o donne, non necessariamente genitori, che si occupano di bimbi piccoli. La curiosità e l’interesse possono sorgere anche dall’osservazione di perfetti estranei (non è per nulla raro vedere uomini a spasso o a giocare con bambini, eppure si insiste nell’assecondare specifiche convinzioni che associano la donna a quei compiti), ma tutto questo non costituisce motivo affinché questa particolare attività risulti, in forma ludica, più popolare di altre osservabili con la stessa o anche maggiore facilità e frequenza, che sono letteralmente un’infinità.

Cicciobello

Insomma, non c’è ragione alcuna – che vada oltre quella relativa all’educazione al ruolo di madre, l’unica per cui realmente esistono giochi simili, connotati nel modo in cui lo sono – per cui i bambolotti da nutrire e accudire siano un gioco così diffuso e considerato con ovvietà e normalità (che siano considerati il giocattolo per eccellenza, insomma) per le bimbe!

● Il fatto che la pubblicizzazione di questi giocattoli venga rivolta solamente ed esplicitamente alle bambine va a comunicare le stesse idee che continuano a essere rinforzate anche negli spot per adulti: prendersi cura dei bambini spetta alle donne, spetta alla madre. L’utilizzo di giocattoli a forma di infante, ideati per educare all’accudimento e instillare realizzazione personale tramite l’esecuzione di tali operazioni, non è caratterizzato – come potrebbe – come “giocare a fare i genitori”, bensì come “giocare a fare la madre”. I bambini, i maschietti, vengono già da piccolissimi esclusi da questo ambito dell’esistenza; esclusione che verrà poi più e più volte reiterata durante la crescita e durante l’età adulta, con la comunicazione continua dell’invisibilità della figura paterna nell’area della cura. In questo caso in particolare, poi, è debolissima anche l’argomentazione del “Beh, possono giocarci lo stesso anche se il prodotto è esplicitamente rivolto solo alle bambine” (come se già solo quello non comunicasse qualcosa alle menti-spugna dei piccoli…), perché per quale ragione, pur volendo giocare con una bambola, un bimbo dovrebbe volerne una che lo chiami…MAMMA?

Oltre a questo,incoraggiare le bambine a dedicarsi solo o prevalentemente a giochi che sviluppano le abilità di cura e comunicazione e i bambini a quelli che sviluppano abilità pratiche spaziotemporali e spronano a essere avventurosi e creativi crea le basi per una crescita cerebrale che stimola determinate aree piuttosto che altre, con conseguenze concrete e a volte determinanti che si riflettono sulle attitudini e sulle capacità nel mondo del lavoro e in altri ambiti dell’esistenza, dando vita a divari tra i sessi a tutti gli effetti generati e non naturali (l’ideale sarebbe consentire, a prescindere dal sesso, l’accesso aperto – e senza incoraggiamento indirizzato – a giochi tesi a sviluppare ogni tipo di abilità, cosicché bimbi e bimbe possano orientarsi in modo realmente libero sulla base delle proprie disposizioni). Un orientamento educativo, questo, che indica con chiarezza dove si vuole socialmente condurre la crescita degli individui in correlazione con il proprio sesso di appartenenza, una dinamica che incarna la forzatura del costrutto del genere sulla realtà del sesso. A proposito di questi argomenti, consiglio a tutti la visione del documentario BBC “No More Boys and Girls: Can Our Kids Go Gender Free?

Cicciobello

Come possiamo noi, esseri umani adulti, batterci per rivendicare il diritto delle donne a non essere, in quanto appartenenti al proprio sesso, determinate dalla maternità o dalla non maternità, quando permettiamo che le nostre figlie, le nostre nipoti e tutte le altre bambine di questo paese crescano sotto la luce di una comunicazione mediatica che, con forza di colori, luci sgargianti e narrazioni allegre, installa in loro il software dell’idea materna come divertente, desiderabile e inevitabile realizzazione dell’essere, dell’idea genitoriale come essenza prima dell’essere femminile (sia più che chiaro, lo sottolineo solo per scrupolo, che ciò in alcun modo vuole negare quanto eccezionale l’esperienza di maternità possa essere per tante)?

Come possiamo noi, esseri umani adulti, batterci per rivendicare il diritto degli uomini a essere, in qualità di genitori, considerati, tanto sul piano operativo che su quello legale, al pari delle donne, quando permettiamo che vengano cresciuti all’insegna della più netta e forte esclusione da qualsiasi ambito legato alla genitorialità e alla cura? L’assenza di rappresentazioni visive maschili – che già di per sé sarebbe sufficiente – accoppiata all’esclusiva presenza di rappresentazione femminile, va a tirar su chiare barriere divisorie dei ruoli di genere, così come socialmente intesi e voluti, che bimbi e bimbe non faticano certo ad assimilare.

A quanto può servire impiegare tempo e impegno a educare gli uomini e le donne adulti, così che comprendano tanto l’importanza e la dignità dell’essere genitori attivi in ogni ambito, con gioia e senza vergogna, quanto la dignità dell’essere persone complete pur in assenza di desiderio genitoriale, se nel frattempo continuiamo a crescere i futuri adulti con le stesse convinzioni, le stesse malsane idee, gli stessi stereotipi e le stesse catene dei ruoli di genere da cui andranno poi liberati (non tutti ci riusciranno e non tutti neppure avranno la forza o il desiderio di provarci) per poter vivere davvero nella pienezza del proprio essere individui singoli?

Sbrodolina
Dai, esponiamo ripetutamente alle stesse identiche immagini, cosicché acquisiscano il valore di ovvietà, normalità e desiderabilità!

È un ciclo. È una catena. È una malattia sociale, a mio vedere.
Diffondere consapevolezza ed educare i fratelli e le sorelle adulti è tutt’altro che futile – anzi, è cruciale per il fine ultimo – ma corrisponde soltanto a una trattazione dei sintomi. Trattiamoli pure questi sintomi, ma non fermiamoci a questo, o allora sì che sarà stato tutto inutile.
Se vogliamo cambiare, se vogliamo curare, è a partire dall’educazione dei più piccoli che dobbiamo agire. Il ruolo dei media può affiancare gli agenti principali (famiglia e scuola) in questo ambito, in alcuni casi anche in modo prominente, e non va dunque sottovalutato.

Ignorare, tralasciare e non dare peso alla portata dei contenuti comunicati tramite gli spot dei giocattoli, quelli cui più massicciamente sono esposti i bambini, dunque, consiste nell’ignorare, nel tralasciare e non dare peso a una parte importante della loro educazione, lasciandola in balìa – parziale o totale – degli stereotipi e delle idee legati ai ruoli di genere comunicati con fermezza e costanza.

Ma parliamo del da farsi. Personalmente identifico due percorsi di rilievo, entrambi attivi, che idealmente andrebbero portati avanti insieme.
Il primo consiste nell’impegnarsi, fintantoché la situazione sarà l’attuale e sempre nei limiti delle proprie ragionevoli possibilità, a limitare l’esposizione ai video pubblicitari dei giocattoli di figli, nipoti o altri bambini con cui si ha possibilità di interagire (può aiutare affidarsi a piattaforme online per guardare i cartoni animati). L’impatto dei condizionamenti aumenta con la ripetizione, quindi anche ove non fosse possibile rimuovere del tutto la visione, ridurla può fare qualche differenza. Il secondo consiste nel darsi da fare, in modo costante e anche insistente – anche qui con ragionevolezza, chiaro – per sollecitare i marchi a cambiare rotta, abbandonare le stereotipizzazione di genere che influenzano lo sviluppo dei piccoli e pubblicizzare i giocattoli all’insegna di divertimento, utilità e benefici che siano inclusivi e non divisivi.


L’azione di ognuno di noi conta. Mi rimetto, dunque, a chiunque si trovi allineato con il tipo di consapevolezza espresso nell’articolo e vi lascio i link per contattare le catene di distribuzione dei bambolotti menzionati e non solo.

  • Giocheria: osservare la divisione dei cataloghi in maschio e femmina permette di chiarire con immediatezza il modo in cui, attualmente, ci impegniamo a crescere i nostri bambini e cosa comunichiamo loro come auspicabile in relazione al proprio sesso. Come, insomma, iniziamo a privarli della libertà già dalla culla.
  • Giochi Preziosi: qui, quantomeno, è assente la divisione per sesso e ce n’è una per tipo di gioco. Purtroppo, però, per quanto apprezzabile, la cosa tampona solo minimamente il fenomeno, perché si scontra con descrizioni (“Solamente con le amorevoli cure della sua mammina potrà guarire.”) e confezioni esplicative del target.
  • Toys Center: anche in questo caso la divisione è per tipologia di gioco, ma la questione permane, tra immagini e descrizioni (“la bimba potrà immedesimarsi nel ruolo della mamma”).
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